Soave: l’autunno tra i vicoli della città del vino

Invasioni barbariche, famiglie nobili, antichi palazzi e confraternite. Ai piedi dei monti Lessini, l’aria sottile delle prime giornate di autunno sa di storia, da assaporare lentamente, sorso dopo sorso, come un calice di vino al tramonto quando il sole si fa strada tra le 24 torri dell’imponente cinta muraria. È da lì che si apre, infinita, la verde distesa di vigneti e di colline: pura poesia a soli 20 chilometri dalla romantica Verona.

Precisamente a Soave, borgo sull’antica via Postumia, strada romana che collegava tutta la Gallia Cisalpina, l’odierna Pianura Padana, famoso per il suo castello dove ancora oggi è possibile visitare le stanze padronali e l’armeria con i giacigli dei soldati. Risalente al X secolo, all’epoca dell’invasione degli Ungari, fu poi fatto restaurare dai signori di Verona, gli Scaligeri, nel ‘300 per difendere la città da Est.

Ma non solo. Celebre al mondo, dalle note floreali e fruttate, è il suo Soave Doc bianco, (infinite sono le varietà) delicato e deciso allo stesso tempo, come il paesaggio in cui nasce.

Antichissime ne sono le testimonianze. Cassiodoro, storico romano, che visse a cavallo tra il regno romano-barbarico degli Ostrogoti e l’Impero romano d’Oriente, lo descriveva così: «il vino bianco, ottenuto da uve selezionate, ha un bellissimo candore che sembra creato da un giglio bianco»

Un vino, definito in tempi più recenti da Gabriele D’Annunzio, «della giovinezza e dell'amore. Lo bevo in omaggio al passato: se non mi ridà i miei vent’anni, me ne ravviva il ricordo»

 

 

DA NON PERDERE

Soave è, ancora, passeggiare tra i vicoli del centro storico, ricco di palazzi d’epoca tra cui quello dei Conti San Bonifacio, sede della Cantina del Castello. (Non è l’unica. Tra le più famose sono anche la Cantina Coffele e, al di fuori della cinta muraria, Rocca Sveva, e Corte Mainente).

Raggiungendo Piazza Antenna si incontrano poi Palazzo di Giustizia, Palazzo Cavalli, Palazzo dei Conti Sambonifacio e Palazzo del Capitano. Numerosissime, ancora, le chiese: Prima tra tutte il Duomo di San Lorenzo Martire che, risalente al ‘300 e restaurata cinque secoli dopo, ospita al suo interno la pala di San Rocco, dipinta Francesco Morone nella prima metà del Cinquecento.

Da non perdere, ancora, la Chiesa di S. Maria Assunta della Bassanella, la Chiesa di San Rocco, la Chiesa di Sant’Antonio e Santa Maria dei Padri Domenicani.

Degna di nota è poi la Chiesa di San Giorgio, dei padri Francescani. Dalle forme semplici e con un piccolo campanile, in seguito alla peste del 1630 fu trasformata in lazzaretto. Sospesa al soffitto si può ammirare la costola di un animale preistorico.

CURIOSITÀ

- È nato prima il vino o il paese? Una leggenda vuole che sia stato Dante Alighieri a dare il nome al borgo medievale in onore del suo vino “soave”, in occasione di un banchetto tenutosi proprio al castello scaligero. Secondo altre testimonianze, invece, il toponimo deriverebbe dai Suaves, cioè gli svevi, popolazione che, con le invasioni barbariche, si stanziò nell’Italia settentrionale e fu poi sottomessa dai Longobardi. In una bolla di Papa Eugenio III (1145) il paese è chiamato proprio Suavium, terra dei Soavi, degli Svevi cioè.

-Trascorse a Soave i primi anni della sua infanzia Ippolito Nievo, scrittore dell’Ottocento originario di Padova, famoso per il romanzo storico Le confessioni di un italiano. In piazza Mercato si può ammirare una sua statua.

-Solo il 15% del vino Soave è prodotto per l’Italia. Il 30% viene esportato in Germania, il 15% nel Regno Unito, e l’ 8%  in USA. Il 18% è distribuito nel resto del mondo.

- La Festa dell’Uva, in programma ogni terzo fine settimana di settembre, e giunta quest’anno alla 95esima edizione, è la più antica di Italia.

Valeria De Simone

 

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Toccata e fuga nel Salento. Acaya: al di là del sole, del mare e del vento

Acaya: al di là del sole, del mare e del vento

Ci lasciamo alle spalle Lecce, con le sue chiese barocche e i vicoli brulicanti di turisti accaldati. Lungo la strada che porta alle spiagge, un refolo di tramontana penetra nell’auto rovente. Le foglie degli ulivi, colpite dai raggi del sole, appaiono come dorate. L’uva è quasi matura. La terra, arsa, si frantuma in mille sfumature. Il frinire delle cicale squarcia, poco a poco, la quiete della controra.

L’estate, in Salento, è una carezza per gli occhi e per l’anima. Non è solo aperitivi vista mare al tramonto, serate in masseria, tra musica e buon cibo, ma anche arte, storia e leggende che affondano le radici in campagne sterminate, teatri, nei secoli, di incontri tra culture e sapori diversi.

È proprio nella natura dirompente che, dopo appena 20 minuti di tragitto, fa capolino il borgo medievale di Acaya. Piccola frazione di Vernole (Le), con poco più di 400 abitanti, è una delle tappe della via Francigena pugliese, un tempo collegamento con la Terra Santa. Prima di immergerci in un mare cristallino (ampia, da queste parti, è la scelta tra Ionio e Adriatico) non può, dunque, mancare un tuffo nel passato.

DA NON PERDERE

Attraversando Porta Terra, sormontata dalla statua del protettore Sant’Oronzo e anticamente unico accesso al paese, ci si addentra nel Castello, considerato uno dei massimi esempi di architettura difensiva dell’allora Regno di Napoli.

Ricostruito nel 1536 su volere di Carlo V dall’“Ingegnere Generale del Regno” Gian Giacomo dell’Acaya, costituiva il primo avamposto per avvistare e fronteggiare le incursioni dei Saraceni provenienti dal mare.

 

 

A forma di quadrilatero, con due torrioni circolari (uno a nord-est e l’altro a sud-ovest), un bastione a punta di lancia (a sud-est) e, infine, un angolo (a nord-ovest) che si congiunge con la cinta muraria realizzata con blocchi di dorata e porosa pietra leccese, è circondato da un profondo fossato. All’interno scuderie (poi trasformate in un frantoio semi ipogeo), carceri, cucine, magazzini, e, al piano superiore, le sale nobiliari. Suggestiva la terrazza, che affaccia su terreni sconfinati e sui bassi edifici bianchi che caratterizzano il borgo, da cui sembra di toccare il mare con un dito. Il castello è, inoltre, oggi sede di una mostra permanente sugli scavi archeologici di Roca Vecchia, località costiera sull’Adriatico a 15 km da Acaya, famosa per le due grotte Posia (dal greco, “sorgente d’acqua dolce”), meglio note come grotte della Poesia.

Passeggiando per le viuzze del centro da non perdere, poi, Santa Maria della Neve, chiesa del XIII secolo, riedificata quasi completamente nella seconda metà del 1800. Dell’edificio originario rimangono l’abside e il campanile tardo-romanico.

Tappa immancabile, a poco meno di 20 minuti, è, ancora, il Parco Naturale delle Cesine, una delle ultime zone paludose che in passato si estendevano lungo la costa adriatica da Otranto a Brindisi. Nell’ oasi, gestita oggi dal WWF, si trovano Salapi e Pantano Grande, due stagni alimentati da acqua piovana e separati dal mare attraverso una striscia di sabbia. 

CURIOSITÀ

  • Il borgo si chiamava Segine fino al Medioevo. Cambiò il suo nome in onore degli Acaya, nobile famiglia, di origini greche prima e francesi poi, che dominò il territorio salentino per tre secoli. A farne parte anche Gian Giacomo, l’architetto di fiducia di Carlo V, che edificò non solo il castello di Acaya, ma anche quelli di Capua e di Cosenza, Castel Sant’Elmo a Napoli, la fortezza di Crotone e il castello di Lecce. Proprio in quest’ultimo, ironia della sorte, venne rinchiuso fino alla morte nel 1570, dopo essere stato arrestato per aver garantito per un debitore insolvente.
  • Nel corso dei recenti lavori di ristrutturazione del castello di Acaya, all’interno di un’ intercapedine, è stata rinvenuto un affresco databile alla seconda metà del Trecento. Si tratta di una Dormitio Virginis, una raffigurazione ispirata ai Vangeli apocrifi, che rappresenta gli Apostoli mentre assistono alla morte della Vergine e Gesù che ne raccoglie l’anima per presentarla a Dio.
  • Acaya è in qualche modo legata alla famosa tarantella salentina: la pizzica. Appena fuori dalle mura si trova la piccola Cappella di San Paolo Apostolo risalente alla metà del XVIII secolo. Insieme alla chiesa di San Paolo di Galatina, è stata uno maggiori centri del tarantismo nel Salento. Si narra che le donne morse dalla tarantola, in preda al delirio, venissero curate con la danza al ritmo incessante di tamburelli per favorire l’eliminazione del veleno iniettato dal ragno. Ma non solo. Grazie all’intercessione di San Paolo, le pizzicate venivano guarite con l’acqua benedetta estratta dal pozzo situato fuori dalla cappella (di cui ora non ne rimane più traccia).
  • Da qualche anno Acaya è tappa del Festival itinerante della Notte della Taranta.

 

Valeria De Simone

 

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Un viaggio a Pitigliano: lo scrigno della Maremma

Distinguere quale sia l’opera della natura e quella dell’uomo, in questo angolo della Maremma toscana, è quasi impossibile. Una massiccia roccia tufacea sorregge ogni singolo edificio fino a diventare tutt’uno con il paese che di giorno emerge dalle verdi vallate, ma di notte, al chiaro di luna, sembra essere sospeso nel vuoto.

 

Appare così Pitigliano, borgo a 313 metri sul livello del mare, in provincia di Grosseto, quasi al confine con il Lazio. Abitato fin dall’epoca etrusca, a cui risalgano le vie cave, veri e propri corridoi scavati nel tufo, alti fino a 30 metri e ancora oggi percorribili, è noto come La Piccola Gerusalemme. La vicinanza con lo Stato Pontificio lo rese, infatti, fin dal XVI secolo, una delle mete favorite dagli ebrei cacciati via dal Papa.

Restano ancora oggi (e vale la pena visitare) la Sinagoga e il museo ebraico, il forno dove si cuoceva il pane azzimo e la cantina dove si produceva il vino kasher.

 

 

Da non perdere

Ancora, da non perdere, Piazza della Repubblica, punto panoramico di accesso al borgo da cui è possibile scorgere il profilo del Monte Amiata, la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, costruita a partire dal XIII secolo, ma completata soltanto 500 anni dopo, e la cinta muraria, realizzata per scopi difensivi dagli Aldobrandeschi che governarono Pitigliano fino al 1600.

A dominare l’intero centro storico, i cui muri sono tappezzati di fiori, come in un quadro impressionista, è Palazzo Orsini. Sorto nel XII secolo come convento, divenne residenza degli Orsini e successivamente degli Aldobrandeschi. Attualmente è sede di due musei: il Museo Civico Archeologico e il Museo di Palazzo Orsini. Di fronte al Palazzo si può, ancora, ammirare la fontana delle Sette Cannelle che attinge l’acqua dall’acquedotto mediceo, costruito dai Medici per il rifornimento idrico del borgo attraverso l’acqua raccolta dai vicini fiumi Lenta, Meleta e Prochio.

I lavori, avviati nel ‘500, terminarono oltre 100 anni dopo. A renderli piuttosto complicati pare sia stata l’irregolarità del territorio.

Curiosità

  • Leggenda narra che Pitigliano sia stata fondata da Petilio e Celiano, due giovani che, dopo aver rubato la corona d’oro di Giove a Roma, fuggirono nelle campagne maremmane fondando una comunità dalla quale poi nacque la città Petiliano che prese il nome dalla fusione di quelli dei due romani.
  • Dolce tipico di Pitigliano è lo Sfratto, un biscotto che ricorda la forma del bastone ricurvo usato per sfrattare, appunto, le famiglie ebree dalle loro case e rimandarle nel ghetto a seguito dell’editto emanato nel 1600 da Cosimo II de’ Medici. Fatto con uova e farina, contiene un dolce ripieno composto da miele, scorze di arancia, noci, anice e noce moscata. Un modo, per la comunità ebraica, di trarre qualcosa di buono da un evento negativo. 
  • Si trasferisce negli anni ’80 a Pitigliano, dove ricoprirà la carica di sindaco dal 1995 al 1997, Alberto Manzi, docentepedagogista e scrittore italiano, noto principalmente per aver condotto, fra il 1960 e il 1968, la celebre trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi
  • A Pitigliano è stato girato lo spot Blue Pill per il lancio, a gennaio 2015, della nuova auto Fiat 500X.

 

Valeria De Simone

 

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