Toccata e fuga nel Salento. Acaya: al di là del sole, del mare e del vento

Acaya: al di là del sole, del mare e del vento

Ci lasciamo alle spalle Lecce, con le sue chiese barocche e i vicoli brulicanti di turisti accaldati. Lungo la strada che porta alle spiagge, un refolo di tramontana penetra nell’auto rovente. Le foglie degli ulivi, colpite dai raggi del sole, appaiono come dorate. L’uva è quasi matura. La terra, arsa, si frantuma in mille sfumature. Il frinire delle cicale squarcia, poco a poco, la quiete della controra.

L’estate, in Salento, è una carezza per gli occhi e per l’anima. Non è solo aperitivi vista mare al tramonto, serate in masseria, tra musica e buon cibo, ma anche arte, storia e leggende che affondano le radici in campagne sterminate, teatri, nei secoli, di incontri tra culture e sapori diversi.

È proprio nella natura dirompente che, dopo appena 20 minuti di tragitto, fa capolino il borgo medievale di Acaya. Piccola frazione di Vernole (Le), con poco più di 400 abitanti, è una delle tappe della via Francigena pugliese, un tempo collegamento con la Terra Santa. Prima di immergerci in un mare cristallino (ampia, da queste parti, è la scelta tra Ionio e Adriatico) non può, dunque, mancare un tuffo nel passato.

DA NON PERDERE

Attraversando Porta Terra, sormontata dalla statua del protettore Sant’Oronzo e anticamente unico accesso al paese, ci si addentra nel Castello, considerato uno dei massimi esempi di architettura difensiva dell’allora Regno di Napoli.

Ricostruito nel 1536 su volere di Carlo V dall’“Ingegnere Generale del Regno” Gian Giacomo dell’Acaya, costituiva il primo avamposto per avvistare e fronteggiare le incursioni dei Saraceni provenienti dal mare.

 

 

A forma di quadrilatero, con due torrioni circolari (uno a nord-est e l’altro a sud-ovest), un bastione a punta di lancia (a sud-est) e, infine, un angolo (a nord-ovest) che si congiunge con la cinta muraria realizzata con blocchi di dorata e porosa pietra leccese, è circondato da un profondo fossato. All’interno scuderie (poi trasformate in un frantoio semi ipogeo), carceri, cucine, magazzini, e, al piano superiore, le sale nobiliari. Suggestiva la terrazza, che affaccia su terreni sconfinati e sui bassi edifici bianchi che caratterizzano il borgo, da cui sembra di toccare il mare con un dito. Il castello è, inoltre, oggi sede di una mostra permanente sugli scavi archeologici di Roca Vecchia, località costiera sull’Adriatico a 15 km da Acaya, famosa per le due grotte Posia (dal greco, “sorgente d’acqua dolce”), meglio note come grotte della Poesia.

Passeggiando per le viuzze del centro da non perdere, poi, Santa Maria della Neve, chiesa del XIII secolo, riedificata quasi completamente nella seconda metà del 1800. Dell’edificio originario rimangono l’abside e il campanile tardo-romanico.

Tappa immancabile, a poco meno di 20 minuti, è, ancora, il Parco Naturale delle Cesine, una delle ultime zone paludose che in passato si estendevano lungo la costa adriatica da Otranto a Brindisi. Nell’ oasi, gestita oggi dal WWF, si trovano Salapi e Pantano Grande, due stagni alimentati da acqua piovana e separati dal mare attraverso una striscia di sabbia. 

CURIOSITÀ

  • Il borgo si chiamava Segine fino al Medioevo. Cambiò il suo nome in onore degli Acaya, nobile famiglia, di origini greche prima e francesi poi, che dominò il territorio salentino per tre secoli. A farne parte anche Gian Giacomo, l’architetto di fiducia di Carlo V, che edificò non solo il castello di Acaya, ma anche quelli di Capua e di Cosenza, Castel Sant’Elmo a Napoli, la fortezza di Crotone e il castello di Lecce. Proprio in quest’ultimo, ironia della sorte, venne rinchiuso fino alla morte nel 1570, dopo essere stato arrestato per aver garantito per un debitore insolvente.
  • Nel corso dei recenti lavori di ristrutturazione del castello di Acaya, all’interno di un’ intercapedine, è stata rinvenuto un affresco databile alla seconda metà del Trecento. Si tratta di una Dormitio Virginis, una raffigurazione ispirata ai Vangeli apocrifi, che rappresenta gli Apostoli mentre assistono alla morte della Vergine e Gesù che ne raccoglie l’anima per presentarla a Dio.
  • Acaya è in qualche modo legata alla famosa tarantella salentina: la pizzica. Appena fuori dalle mura si trova la piccola Cappella di San Paolo Apostolo risalente alla metà del XVIII secolo. Insieme alla chiesa di San Paolo di Galatina, è stata uno maggiori centri del tarantismo nel Salento. Si narra che le donne morse dalla tarantola, in preda al delirio, venissero curate con la danza al ritmo incessante di tamburelli per favorire l’eliminazione del veleno iniettato dal ragno. Ma non solo. Grazie all’intercessione di San Paolo, le pizzicate venivano guarite con l’acqua benedetta estratta dal pozzo situato fuori dalla cappella (di cui ora non ne rimane più traccia).
  • Da qualche anno Acaya è tappa del Festival itinerante della Notte della Taranta.

 

Valeria De Simone

 

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Un viaggio a Pitigliano: lo scrigno della Maremma

Distinguere quale sia l’opera della natura e quella dell’uomo, in questo angolo della Maremma toscana, è quasi impossibile. Una massiccia roccia tufacea sorregge ogni singolo edificio fino a diventare tutt’uno con il paese che di giorno emerge dalle verdi vallate, ma di notte, al chiaro di luna, sembra essere sospeso nel vuoto.

 

Appare così Pitigliano, borgo a 313 metri sul livello del mare, in provincia di Grosseto, quasi al confine con il Lazio. Abitato fin dall’epoca etrusca, a cui risalgano le vie cave, veri e propri corridoi scavati nel tufo, alti fino a 30 metri e ancora oggi percorribili, è noto come La Piccola Gerusalemme. La vicinanza con lo Stato Pontificio lo rese, infatti, fin dal XVI secolo, una delle mete favorite dagli ebrei cacciati via dal Papa.

Restano ancora oggi (e vale la pena visitare) la Sinagoga e il museo ebraico, il forno dove si cuoceva il pane azzimo e la cantina dove si produceva il vino kasher.

 

 

Da non perdere

Ancora, da non perdere, Piazza della Repubblica, punto panoramico di accesso al borgo da cui è possibile scorgere il profilo del Monte Amiata, la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, costruita a partire dal XIII secolo, ma completata soltanto 500 anni dopo, e la cinta muraria, realizzata per scopi difensivi dagli Aldobrandeschi che governarono Pitigliano fino al 1600.

A dominare l’intero centro storico, i cui muri sono tappezzati di fiori, come in un quadro impressionista, è Palazzo Orsini. Sorto nel XII secolo come convento, divenne residenza degli Orsini e successivamente degli Aldobrandeschi. Attualmente è sede di due musei: il Museo Civico Archeologico e il Museo di Palazzo Orsini. Di fronte al Palazzo si può, ancora, ammirare la fontana delle Sette Cannelle che attinge l’acqua dall’acquedotto mediceo, costruito dai Medici per il rifornimento idrico del borgo attraverso l’acqua raccolta dai vicini fiumi Lenta, Meleta e Prochio.

I lavori, avviati nel ‘500, terminarono oltre 100 anni dopo. A renderli piuttosto complicati pare sia stata l’irregolarità del territorio.

Curiosità

  • Leggenda narra che Pitigliano sia stata fondata da Petilio e Celiano, due giovani che, dopo aver rubato la corona d’oro di Giove a Roma, fuggirono nelle campagne maremmane fondando una comunità dalla quale poi nacque la città Petiliano che prese il nome dalla fusione di quelli dei due romani.
  • Dolce tipico di Pitigliano è lo Sfratto, un biscotto che ricorda la forma del bastone ricurvo usato per sfrattare, appunto, le famiglie ebree dalle loro case e rimandarle nel ghetto a seguito dell’editto emanato nel 1600 da Cosimo II de’ Medici. Fatto con uova e farina, contiene un dolce ripieno composto da miele, scorze di arancia, noci, anice e noce moscata. Un modo, per la comunità ebraica, di trarre qualcosa di buono da un evento negativo. 
  • Si trasferisce negli anni ’80 a Pitigliano, dove ricoprirà la carica di sindaco dal 1995 al 1997, Alberto Manzi, docentepedagogista e scrittore italiano, noto principalmente per aver condotto, fra il 1960 e il 1968, la celebre trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi
  • A Pitigliano è stato girato lo spot Blue Pill per il lancio, a gennaio 2015, della nuova auto Fiat 500X.

 

Valeria De Simone

 

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Alla scoperta di Tellaro: un tuffo alla fine del mondo

 

Muri gialli e rosa pastello si alternano a mattonelle rosse e bianche. Porte e finestrelle verdi si stagliano, come sorrisi, sulla scogliera che si affaccia sul Golfo dei Poeti. “È un posto che non si può attraversare. È un posto a cui si arriva. Un po’ la fine, una delle fini del mondo. Si arriva e basta: si è arrivati. C’è un senso, unico, di calma e di chiusura.”

È con queste parole accorate che lo scrittore e giornalista torinese Mario Soldati descriveva Tellaro, borgo marinaro all’estremità orientale di Lerici (SP), fuori dal noto itinerario turistico delle Cinque Terre, dove decise di trascorrere la sua vecchiaia.

Eugenio Montale, invece, durante una sosta in treno, vi trovò l’ispirazione per una poesia. “…Cupole di fogliame da cui sprizza una polifonia di limoni e di arance e il velo evanescente di una spuma, di una cipria di mare che nessun piede d’uomo ha toccato o sembra, ma purtroppo il treno accelera”.

Nato come avamposto difensivo dell’antico insediamento romano di Barbazzano, che nel 1400 fu raso al suolo dai saraceni, Tellaro, abitato oggi da 1200 persone, fu particolarmente apprezzato anche dagli inglesi Virginia Woolf ed Henry James

DA NON PERDERE

A ergersi fiera sullo sperone della roccia a sud ovest è la chiesa di San Giorgio, risalente al XVI secolo. Secondo una leggenda popolare furono proprio le sue campane a svegliare gli abitanti durante un assalto notturno di pirati saraceni. Pare che a dare l’allarme, consentendo ai cittadini del borgo di avere la meglio sui nemici, fosse stato un polpo gigante con i suoi tentacoli.

A testimonianza del curioso avvenimento un’iscrizione in latino nella chiesa: “Saraceni mare nostrum infestantes sunt noctu profligati quod polipus aer cirris suis sacrum pulsabat”. A raccontarlo, poi, in una lettera, anche lo scrittore inglese David Herbert Richards Lawrence che trascorse un periodo della sua vita proprio tra Tellaro e i vicini borghi liguri. Scrive nel 1913 a un amico: “Una leggenda racconta che una volta, di notte, la campana della chiesa cominciò a suonare senza smettere. Gli abitanti si svegliarono spaventati, mentre la campana continuava a suonare misteriosamente.

Poi si scoprì che la corda della campana era caduta sul bordo della scogliera, tra le rocce, un grosso polpo era riuscito a prendere la cima e tirarla, il che è possibile. Gli uomini vanno a pesca di polpi con un’esca bianca e una lunga fiocina. Ne prendono di grandi, a volte di tre chili o tre chili e mezzo di peso. Non ho mai visto niente di così diabolicamente brutto, ma sono buoni da mangiare”.

Già. Forse complice la leggenda, pietanza tipica non poteva che essere il polpo alla tellarese. Lessato con le patate, è condito con olio, olive snocciolate, un trito di aglio, prezzemolo, sale e succo di limone.

Ad attrarre ancora l’attenzione vicino alla Chiesa di San Giorgio è una particolare cancellata in ferro battuto che introduce in una galleria coperta: è la cosiddetta Sotto-ria, costruita intorno al 1300 a difesa del borgo dalle incursioni dei saraceni, dei catalani e dei pirati locali.

Da non perdere inoltre una passeggiata tra i caruggi, strette viuzze che avevano la funzione di incontro, sfide, faide tra famiglie, ma anche di veglia.

CURIOSITÀ

  • Probabilmente è proprio nei caruggi (chiamati a Tellaro carubbi) che affonda le radici l’antico detto di Porto Venere (paesino che si affaccia sul capo opposto del Golfo dei Poeti) “Tellaro non voglio, perché brucian con l’olio”. A Tellaro infatti si produceva così tanto olio da poterlo usare, bollente, come arma di difesa. Pare che, dalle finestre che affacciavano sui vicoli, venisse rovesciato sugli assalitori giunti dal mare.
  • Il nome Tellaro potrebbe derivare da “tela” per via dei commerci di tele e stoffe, o dal latino telus, il dardo usato per la difesa, o addirittura dall’etrusco o paleo-ligure tularche significa “confine del villaggio”.
  • Il 24 dicembre si svolge il Natale Subacqueo. Trasportata da un gruppo di sub, la statua di Gesù Bambino emerge dalle acque per poi essere depositata in una mangiatoia. La luce di 8.000 lumini e i fuochi d’artificio sul mare danno vita a un’atmosfera magica.
  • La CNN ha inserito Tellaro tra i sette borghi più belli e affascinanti d’Europa.

 

Valeria De Simone

 

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